C’era una volta un ragazzetto che viveva in una piccola cittadina di provincia, guardava quello che gli passava attorno, osservava, riconosceva, pensava.
Un giorno si trasferì nella grande città e dopo poco si ritrovò a guardare molto di meno quanto passava attorno, a osservare, a riconoscere molto meno. Ma aveva l’abitudine a pensare. E si chiese il perché.
Due post letti negli ultimi giorni mi hanno fatto riflettere un poco, anche se in realtà prenderò più che altro spunto da alcuni commenti che li hanno accompagnati per descrivere un certo tipo di noia e di sofferenza. Come molti non possono arrivare a capire perché non appartengono alla generazione di chi é nato nel mondo digitale, perché usano gli strumenti di oggi con gli occhi di ieri.
Non siamo sofferenti o annoiati, siamo blasè. Rimanderei qui alla lettura di un brevissimo scritto di Georg Simmel di oltre un secolo fa, “La metropoli e la vita dello spirito”, libro che per me ha significato davvero tanto, e che mai come oggi sa essere“attuale. Semplicemente noialtri, (nati in Italia dopo l’arrivo delle televisioni commerciali per dare l’idea) abbiamo alzato la soglia minima di riconoscibilità. Il resto ci scivola addosso e scorre…
Come dicevo non è questione di sofferenza o di noia di fronte alle nuove tecnologie, il problema in realtà è molto, molto più grosso. Noi delle vostre meravigliose e infinite tecnologie non sappiamo proprio che farcene. Sono inutili e sono troppe. Non ci dicono niente, fanno solo confusione. Il mondo meraviglioso è il vostro, l’inutilità è tutta nostra.
Siamo nati in una società in cui tutti urlano, in cui le occasioni si sprecano, semplicemente perché non sappiamo vederle. Siamo talmente bombardati di immagini, di suoni, di occasioni che non possiamo mancare che abbiamo due reazione scomposte, involontarie.
Da un lato non riusciamo a vedere che quelle che ci stanno sotto gli occhi, le uniche non coperte da tutte le altre, quelle più rumorose, quello più appariscenti. D’altra parte ci manca una cosa fondamentale che sviluppi la creatività, il senso.
Quello che davvero si è perso è questo, è il significato da dare agli strumenti, sempre più numerosi che ogni giorno ci vengono messi a disposizione. Questo senso non esiste più.
E subentra l’inevitabile noia, noia di comunicare in ogni modo possibile con tutti i nostri simili. Lo facciamo sempre più spesso, e sempre più spesso usiamo questo nostro tempo strusciandolo senza motivo, solo per usare l’ultima novità, per non sprecare l’imperdibile occasione, perché fa figo, ma non abbiamo nulla da dire.
Non abbiamo nulla da dire, non abbiamo nulla da chiedere, corriamo e basta.
Questa mia impressione si è acuita da quando vivo a Parigi, città sempre di corsa, città d’affari, città di studio in cui la faccia disintegrata dei cittadini durante la settimana non agogna altro che la passeggiata tranquilla della domenica, quando si spegne ogni computer, si lascia il cellulare a casa e si va a prendere il sorbetto da Berthillon. Non c’è una speranza che vada oltre la fuga dalla propria vita e dalla propria tecnologia per la stragrande maggioranza delle persone.
I giovani non si comportano in modo fondamentalmente dissimile. Siamo bombardati in ogni modo da tecnologie prettamente inutili senza un fine valido, siamo sommersi da guru tecnologici/teleologici che vedono nell’applicazione web di grido la soluzione ad ogni male dell’umanità. Il network, il network gridano tutti storpiando l’inglese.
E sia, il network.
E poi?
Per cosa?
Ecco, la scuola che vorrei è diversa da quella che pensano in tanti. Vorrei una scuola libera, veramente avulsa dalla realtà per certi versi. Vorrei una scuola in cui l’unico obiettivo sia quello di mostrare possibili strade alla ricerca di senso, al di là delle materie, al di là del mondo del lavoro che seguirà.
Con il loro spirito di opposizione, spesso anche fine a sé stesso, i giovani sanno mantenere una distanza maggiore rispetto agli adulti per quanto riguarda certi campi. Si, è vero, abbiamo la comunicazione nel sangue, e per questo non la sopportiamo più, mentre voi cercate in ogni modo di farla entrare da ogni buco. C’è anche per essa un giusto mezzo oltre il quale non è lecito andare, oltre il quale anche la naturalezza della comunicazione diviene una forzatura da combattere.
Nessuno quanto i giovani sa distorcere gli usi previsti dagli adulti per i media, parlando in codice, utilizzando lo strumento cosi come non era prevedibile, rifiutandolo anche. Perché la comunicazione non ha senso se non è finalizzata a qualche cosa. E l’unico orizzonte che rimane sono gli amici. Fede, patria, etica, non significano più nulla, e allo stesso modo tutta una serie di cambiamenti che ad altri occhi parrebbero positivi.
Semplicemente la vostra curiosità non ha più motivo di essere, era dettata dalla scarsità. Vivendo nell’abbondanza noi cerchiamo esattamente il contrario. E potrebbe essere che la prossima frattura sociale si giochi proprio su questo, semplicemente una lotta, di nuovo, tra rumore e silenzio.
Intanto il torpore è l’unica risposta al vostro rumore, al rumore che ci lasciate in eredità.
E un giorno, citando Svevo, e sperando che non arrivi troppo tardi, ci sarà un cataclisma, di quelli belli. E potremo tornare a goderci un po’ di silenzio.
Sarà meravigliosamente duro essere sofferenti e annoiati in quei giorni…
La scelta… Tema già affrontato in passato direi, ad esempio da due signori che facevano Kierkegaard o Sartre di cognome.
E nessuno dei due ha dato una risposta particolarmente confortante.
Se davvero questo riserva il futuro (e parrebbe proprio di si) ci vorrà ben più di un po’ di assestamento per entrare nell’otticfa.
Nel frattempo purtroppo tutti coloro che non vorranno scegliere saranno facile preda di populismi, di sette varie, di facili venditori di pensieri precotti.
Occorre una guardia estremamente alta, e non so se basterà a passare all’età della scelta senza eccessivi scossoni…
Tema quantomai di scottante attualità questo…
Mi ricordo che un giorno Derrick De Kerchove mi disse che l’unica strada per noi è quella di cominciare a fare delle scelte. Scegliere vuol dire essere liberi ma anche responsabili, per scegliere dobbiamo sapere quello che vogliamo. E’ questa la cosa più difficile. La tecnologia ci offre più opzioni, ma non la capacità di scegliere, quella viene da noi.
Il grande problema è quello delle quantità. Ci sono talmente tante cose interessanti, da scoprire, che non vale più la pena affrontarle, tanto non si vedrebbe comunque che una minima parte del tutto.
Questa è l’attitudine generalizzata acuita dagli strumenti tecnologici che lasciano ogni possibilità.
Ci vorrebbe il salto di qualità, il cominciare a saper godere di questa infinità che fino ad oggi era racchiusa solo nell’arte (quella astratta e nella poesia più che nelle altre).
Purtroppo di fronte a questo la nostra società corre dietro al determinismo tecnologico, all’idea di poter spiegare tutto con la scienza esatta che non esiste più da almeno cento anni, da Planck in poi.
E questi due universi valoriali collidono. Bisogna spiegare dove la scienza è arrivata, o tornare a studiare la poesia pura. Di certo non rimanere in mezzo al guado attuale…
“E l’unico orizzonte che rimane sono gli amici”
Parole sante!
sly
Vorrei introdurre un’altra variabile a questi concetti che mi sembrano un po’ di scuola. Non è che ci siamo persi un concetto di base che è l’interesse per la creazione di una cultura personale? Che senza questa base, che la scuola non sa dare, e con l’aggravante del bombardamento mediatico si sia persa la capacità di stupirsi e di incuriosirsi. Sarò banale e desidero esserlo: chiedete ad un certo numero di ragazzini se hanno mai visto un’alba e, se si, che cosa hanno provato. La capacità di comunicare e conversare parte da queste cose. La capacità di capire gli strumenti che possono ampliare la nostra conversazione e arricchirla con il confronto con altri mondi parte da queste cose. Gli strumenti, senza i contenuti, sono inutilizzabili. E il resto è noia (F.Califano)
Attenzione, qui mi pare ci sia una certa deriva del discorso. Ovvero tendiamo a qualcosa che non era iscritto nella mia ironicissima descrizione dell’apatia modernica.
La distinzione tra codici è valida, ma non pertinente nel caso. Io parlo di rumore, di quantità eccessiva, non di irriconoscibilità del codice. La differenza è sostanziale.
Da un certo punto di vista è vero, oggi ci troviamo in un mondo in cui il montaggio di diversi sistemi semiotici ancora fatica ad essere compreso. Ma l’apatia non deriva da questo, semplicemente perché una codificazione non ancora chiara provoca stupore, curiosità, attivazione inferenziale.
D’altro canto, e questo volevo far notare, ci troviamo semplicemente di fronte ad un eccesso di comunicazione basata su sistemi semiotici tradizionali. Eccesso che provoca un innalzamento della soglia minima di riconoscibilità (da intendersi classicamente, secondo la psicologia cognitiva). Per discernere un numero accettabile di eventi, cancelliamo tutti quelli non troppo rumorosi.
Non so tu dove viva, io ad esempio non posso neppure contare la pubblicità che vedo in ogni forma semplicemente tra casa mia e il supermercato a duecento metri. Non ce la faccio proprio, perdo il conto per strada. Non ti dico quando prendo il métro per andare da qualche parte. Io cancello direttamente e non posso fare altrimenti per strette ragioni di sopravvivenza. Non c’è stata alcuna campagna pubblicitaria infatti che mi abbia minimamente interessato o stupito nel corso degli ultimi due anni. Ci vorrebbe forse il morto in diretta per scuotermi… Questa è l’apatia che la sovrabbondanza crea.
Per quanto riguarda invece la grammatica dell’espressione digitale ci sto lavorando per l’università e ancora è in costruzione. Ma potrei azzardarti l’anticipazione che non è troppo diversa dalle ultime produzioni sincretiche dei media tradizionali. Almeno al momento le mie ricerche mi spingono a dire questo.
Sui termini postmoderno e glocale un giorno o l’altro dovrò scrivere. Io non credo abbiano davvero senso di essere, sono alcuni tra i termini più vuoti, pericolosi e inutili coniati nel corso degli ultimi trent’anni, ma qui mi riservo di spiegarmi ed esprimermi meglio con comodo.
Insomma, in conclusione, la possibilità esiste, quella di creare da qualunque angolo del mondo (esiste in teoria, il digital divide in realtà rende il tutto una finzione al momento), ma quello che rischia di perdersi prima è la volontà di dire qualcosa, soppressa, oppressa nella maggior parte dei casi dal troppo che ci circonda. Dal non voler parlare per via dell’odio del rumore, del tacere come atto di protesta o come resa non volendo urlare. Con la possibilità magnifica e progressiva poi ci giochiamo a bocce in quel caso.
Da gangherologo, introduco una distinzione tra segno e segnale, tra canale e messaggio, tutte cose che sappiamo, messe in luce 40/50 anni fa, tra cibernetica (… autoregolamentazione dei sistemi complessi, il timone del web) e prime sistemazioni semiotiche.
Ovviamente la differenza la fa la nozione di codice.
I giovani che andavano a Vienna o a Parigi cento anni fa si esponevano a nuovi codici, e sul loro talento innestavano una visione del mondo più ampia, che permetteva loro di divenire i Picasso o i Modigliani che conosciamo.
Scoprivano qualcosa e qualcome dar senso al loro dire, correlando i propri punti di vista e le proprie emozioni alle nuove parole in quel caso artistiche, ricavandone identità e pro/getto.
Rovesciando i termini, credo che giovani oggi siano già biodigitali, quella che va loro fatta scoprire è la grammatica moderna dell’espressione, anche attraverso la scuola (non come questa di oggi, sono totalmente d’accordo). Magari il rumore verrà riconosciuto nelle sue componenti, e si comprenderà che una parte riguarda come sempre il canale comunicativo, ma una certa parte in realtà sembrava rumore, ma solo perché mancavano i codici per disambiguare coerentemente il messaggio, che non viene riconosciuto come tale.
Ma soprattutto come dice Sergio occorre qualcosa che parta dal basso, una pulsione a comunicare, una motivazione a dare immagine di sé e dei propri valori al mondo. Perché ogni generazione ha necessariamente qualcosa da dire.
Qui entrano in gioco i valori, le assiologie, l’enciclopedia.
GLOCALE è il valore: solo che a noi più anzianotti non ci sembra vero di poter ragionare e pubblicare a livello planetario (web) e ci crogioliamo nell’aspetto GLOBAL del termine, mentre la parte interessante verso cui rivolgerci ora è decisamente quella LOCAL.
Il giovane Picasso non deve più andare a Parigi: le metropoli sono ovunque; diamogli il tempo di comprendere il codice, e dal suo borgo digitale potrà riflettere e partecipare e appartenere a tutte le comunità che vorrà, soprattutto se saprà apportare nuovi contenuti riguardanti innanzitutto il suo ben-stare sul territorio e la sua collettività fisica di appartenenza. Il benessere è valore astratto, va declinato come forma di esserci, di aver cura, di ben-stare qui-e-ora, sappiamo anche questo.
Perdonate la confusione di questo mio commento frettoloso, seguiterò a leggere.
Completamente d’accordo Sergio, altrimenti non starei qui a scrivere…
Speriamo solo che prima delle generazioni digitali arrivino le generazioni che sanno usare il digitale. E che ripeschino qualcosa di molto, molto analogico.
Altrimenti la tecnologia salvifica potrebbe rivelarsi solo uno specchietto per le allodole…
Bisogna sempre preoccuparsi dei rischi!
sulla provocazione finale ti vengo dietro. il silenzio finale, probabile.
ma nella mia testa al tuo scenario manca un passaggio intermedio: che cosa ci porta dalle cucchiaiate che ci arrivano dall’alto all’implosione finale? secondo me qualcosa di nuovo che parte dal basso, che parla di creatività e di senso, e che non mi pare affatto che le generazioni nate col digitale diano ancora per scontato.
poi, solo poi, di fronte alla presa di coscienza che sarebbe toccato a ciascuno di noi, e a nessun altro, invertire la rotta, comincerà la fine.
la tecnologia non ci salverà, no; solo le persone possono salvarsi. con o senza la tecnologia. senza sarebbe meglio, ma se sarà grazie a processi favoriti dalla tecnologia mi accontenterò. 🙂