Mi è capitato di leggere alcuni spezzoni del recente libro di Unni Wikan, antropologa norvegese che collabora col governo del proprio paese riguardo il tema oggi scottante del delitto d’onore e dei rapporti tra le culture importate con l’immigrazione nella vecchia Europa. Generous betrayal, politics of culture in new Europe parrebbe rimettere in discussione il rapporto tra governo ed immigrati nei paesi europei.
Secondo il pensiero espresso dalla Wikan l’atteggiamento multiculturalista (rispetto assoluto dei valori delle culture degli immigrati) dell’occidente lascia i più deboli alla mercé dei più forti all’interno delle proprie bolle culturali portando ad esempio il delitto d’onore a rappresentare non solamente un qualcosa di accettabile, ma anche una fonte di rinnovata dignità nei confronti dell’altro. L’autrice ritiene che le vittime di questi delitti (il cui concetto è alla base del pensiero dell’autrice) siano vittime di un concetto erroneo di cultura basato sui popoli piuttosto che sui singoli individui.
Il problema dell’immigrazione e delle conseguenze integrative non dovrebbe più essere affrontato secondo le regole classiche, ma attraverso l’introduzione di modifiche legislative atte a proteggere i più deboli all’interno di queste culture importate. Il codice penale norvegese si è mosso in tal modo, reintroducendo ad esempio il delitto d’onore e il supplemento di condanna che questo prevede rispetto all’omicidio tradizionale; il fatto che esso sia maturato all’interno di un insieme di valori e grazie agli stessi membri della comunità non deve rappresentare una scusante, ma un’aggravante.
Il pensiero dell’antropologa mi pare si basi su una constatazione secondo la quale le singole comunità non sono in grado di proteggere i più deboli, normalmente le nuove generazioni più disposte ad un’integrazione con i valori della nostra società e, di conseguenza, esprime l’opinione che sia il governo, lo stato occidentale, che debba prendersi cura di proteggere il processo integrativo dei giovani. Anche contro l’originale cultura familiare.
Pensare agli immigrati allora come individui e non come soggetti collettivi, non quindi come masse religiose capaci di giustificare sacrifici rituali, ma come individui che decidono liberamente del loro destino e delle loro azioni. I conflitti tra le generazioni di immigrati non sono risolvibili se non grazie all’applicazione di una discriminazione positiva che sta alla base delle nostre costituzioni.
Nuove regole si prospetterebbero dunque per la convivenza interculturale, basate su un necessario rispetto reciproco che non si limita al riconoscimento delle diversità inconciliabili, ma che scende in campo per stabilire rapporti equi e bilaterali obbligati tra paesi di provenienza. Il criterio dell’apertura dovrebbe divenire un concetto esclusivamente duale o non essere neppure toccato. I matrimoni dovrebbero essere consentiti solo se i rapporti sono paritari, le consulte islamiche solo se prevedono la partecipazione anche femminile e così via.
Ma pensandoci bene, sarebbero queste le basi corrette per stabilire un processo di integrazione oppure stiamo solo caricando le altre culture di aspettative individualistiche che fanno parte del pensiero occidentale. E in secondo luogo, siamo disposti a ibridare la nostra cultura senza ricevere in cambio un rapporto paritario da parte delle altre sponde del pianeta?
Non ho una risposta chiara a questi interrogativi, e anche se non condivido in pieno la necessità di bilateralismo della Wikan, sono fortemente a favore della protezione dei più deboli all’interno della nostra sfera culturale e statale, modificando anche fortemente l’ordinamento giuridico per contemplare i cambiamenti culturali. Potrò io non sposare una mussulmana (facendo un esempio casuale e preso dall’attualità) perché secondo la legge islamica sono un infedele, ma d’altra parte che il delitto d’onore (o disonore) verso la famiglia, sia previsto e severamente punito in Italia perché esso è contrario alla base ultima dei miei valori culturali. Che il dibattito si apra in maniera propositiva e si vada verso una modifica legislativa dato l’elevato numero di immigrati già presenti nel nostro paese. Dialogo e legge sono e devono restare alla base del nostro agire ben al di là della esotica sorpresa e dello stupore che seguono queste vicende.
P.s. Ho saputo che è possibile trovare un articolo sul libro della Wikan anche su D di Repubblica di sabato 16 settembre, non so tuttavia le pagine…